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LIFELONG LEARNING: AMBIGUITA' DI UNA LOCUZIONE MOLTO USATA

Data 8/2/2006 16:50:00 | Categoria: Aggiornamento

Le ambiguità lessicali e semantiche che tuttora gravano sul concetto di lifelong learning, ripetutamente denunciate , non giovano al consolidamento di un costrutto che ambisce a proporsi come principio-guida sia delle politiche educative e sociali elaborate dalle maggiori organizzazioni internazionali aventi responsabilità in questo campo ...
da LIFE LIFEWIDE LEARNING
...(UNESCO, OCDE, Unione Europea) che di quelle di pertinenza dei singoli Paesi. Che poi a tale principio, a partire dalla pubblicazione del Libro bianco di Cresson-Flynn, si faccia riferimento con crescente frequenza non costituisce una attenuante rispetto al fatto che esso si presti ad interpretazioni tra loro divergenti o a possibili fraintendimenti. Nel ricostruirne la “storia”, una indagine condotta anni addietro da Eurydice muoveva dalla constatazione che l’espressione lifelong education (da noi educazione permanente), ampiamente presente nel dibattito culturale di tutti gli anni Settanta, si è quasi all’improvviso eclissata dalla scena per riemergere a metà degli anni Novanta configurandosi, in questo caso, come lifelong learning .
Alcuni, al momento, minimizzarono la portata di quel cambiamento, riducendolo ad un fatto meramente terminologico; altri, più accorti, cercarono di giustificarlo affermando che, finita la stagione delle utopie occorreva assicurare, in nome della concretezza imposta dai problemi da affrontare, maggiore operatività ad ogni tipo di impresa educativa. Pochi compresero che se, per un verso, è auspicabile che ogni uomo possa avvertire la responsabilità di avvalersi, lungo tutto il corso della vita, delle opportunità di educazione/formazione che gli sono offerte è, dall’altro, non meno vero che l’apprendimento presuppone condizioni sociali che consentano a tale impegno di realizzarsi. Presuppone, primariamente, un disegno strategico capace di ispirare l’intero sistema educativo/formativo; esige, inoltre, ragioni - radicate in una antropologia di riferimento che abbia a suo fondamento l’educabilità dell’uomo, la sua capacità di autoeducarsi, il suo diritto a realizzarsi come singolo e come membro di una comunità - che mettano in condizione di rispondere ad alcune domande cruciali: perché apprendere?, che cosa apprendere? in vista di quali obiettivi utilizzare gli apprendimenti acquisiti?
E’, nondimeno, un dato incontrovertibile che l’espressione lifelong learning (“apprendere lungo tutto il corso della vita” e le sue varianti), per quanto semanticamente debole, abbia finito con l’imporsi tanto nel linguaggio comune quanto in quello scientifico. Ma se i sostenitori di tale formula hanno vinto “la battaglia terminologica”, hanno anche lasciato irrisolte questioni che, puntualmente, finiscono con il riaffiorare ogni qualvolta si cerca di stabilire una qualche connessione tra le molteplici modalità in cui l’esperienza formativa si realizza (educazione formale, non formale, informale, iniziale, continua, ecc.) o si intende mettere ordine nel complessivo impianto concettuale che la riguarda. Per questo, soffermarsi su alcune di tali questioni, non è un “andare fuori tema” rispetto a quelle affrontate in questa sezione della Rivista.
Abbandonando l’idea di educazione permanente (o in qualunque altro modo si intenda, oggi, indicare quel concetto), così come questa era stata elaborata nella stagione che ne aveva visto la fioritura , è venuta a mancare, a nostro avviso, la cornice di senso delle diverse attività di carattere educativo/formativo che la persona ha modo di compiere nel corso della propria esistenza. Lifelong learning non può infatti essere considerato l’equivalente di educazione permanente; né si può considerare sinonimo di educazione che dura tutta la vita, di educazione degli adulti o di formazione continua. E per quanto nessuno intenda minimizzare la portata del paradigma dell’apprendimento permanente - a cominciare dal fatto che esso “rimette al centro” il soggetto e che lo responsabilizza in ordine alle opportunità e ai percorsi educativi e formativi da seguire - va tuttavia anche detto che da qui ad assumerlo come quadro teorico-pratico capace di fungere da motivo ispiratore dell’intero sistema di educazione/formazione il passo è lungo. L’apprendimento è una pratica (o, se si vuole, un processo) che ha come fine il possesso e lo sviluppo del sapere, ma non ci dice molto su ciò che spinge l’uomo a cercare di accrescere costantemente le proprie conoscenze (a cominciare dal maturare in lui della disponibilità ad apprendere ad apprendere) e su qual è il sapere capace di favorire la sua piena “umanizzazione”. Puntualizzazioni, queste, niente affatto ovvie specialmente se si pensa alle derive di marca efficientistica e funzionalistica cui sono esposte talune pratiche di lifelong learning.
Che l’apprendimento rappresenti più di un diritto per tutti gli uomini e che sia una “chiave” indispensabile per affrontare i problemi del nostro tempo è persino superfluo annotarlo. Ciò che invece ci lascia perplessi, e su questo crediamo doveroso sviluppare alcune rapide considerazioni, è il fatto che adottando la prospettiva del lifelong learning, a nostro avviso, viene a mancare, a monte, un’idea sufficientemente elaborata, capace di legittimare, appunto, l’apprendimento lungo tutto il corso della vita. In sostanza, ci sembra che l’apprendimento permanente non possa prescindere da un quadro teoretico, da una dimensione politico-strategica dell’educazione che funga, in qualche modo, da riferimento . L’apprendimento è infatti, pur sempre, uno strumento, un mezzo per un fine che ha bisogno di essere esplicitato; per non dire - osserva Paul Bélanger, già direttore dell’Istituto per l’educazione dell’Unesco - che c’è apprendimento e apprendimento: c’è quello destinato a fornire competenze professionali e quello utile a preservare dai rischi della disoccupazione, quello finalizzato alla crescita personale e quello che risponde ad esigenze sociali, quello che esalta le attitudini e le potenzialità individuali e quello che favorisce la crescita della comunità di appartenenza . Esistono quindi visioni contrastanti dell’apprendimento, così come del ruolo che esso ha nella società della conoscenza: c’è infatti chi lo interpreta come mezzo con cui fronteggiare le richieste di adattamento (alle nuove tecnologie, al mutare dei processi produttivi, ecc.) che provengono da tale modello di società e chi individua nella sua dimensione “creativa” la risorsa principale per uno sviluppo sostenibile, chi lo associa alla necessità di una costante riqualificazione dei saperi personali e chi vi intravede una opportunità di sviluppo e valorizzazione del potenziale umano .
E che l’esigenza di una ‘idea-guida’ sia ancora avvertita come necessaria è confermato dal fatto che non pochi documenti ufficiali che si occupano di educazione scolastica, di formazione professionale e continua, di educazione degli adulti, predisposti anche di recente, continuano a dichiarare, in apertura del discorso, che le proposte da essi avanzate si inquadrano “nella prospettiva dell’educazione permanente…” . Ora, per evitare ambiguità, se si intende effettivamente dismettere l’uso di quest’ultima locuzione e, prima ancora, dichiarare l’inadeguatezza del concetto che la sostanzia, sarebbe doveroso quantomeno esporne i motivi - e ce ne possono essere diversi: Mario Mencarelli, già nel1973, annotava con rammarico che si tratta di una locuzione destinata ad inflazionarsi rapidamente e José Garcia Garrido, nel 2000, ha dovuto riconosce che essa è di quelle che “si logorano facilmente con l’uso” - così come occorrerebbe suggerire in che modo sostituirla più efficacemente. A guardare, invece, come stanno andando le cose si ha l’impressione che sia in atto un tacito processo di “rimozione” dell’idea di educazione permanente, vissuto peraltro con un certo imbarazzo in quanto manca il coraggio di eliminarla del tutto dalla riflessione pedagogica (forse perché se ne continua comunque a subire il fascino, come sempre avviene per le “grandi idee”). Ne è riprova l’uso pleonastico dell’aggettivo “permanente”, inserito in espressioni che potrebbero benissimo farne a meno: educazione permanente degli adulti, Centri Territoriali Permanenti, ecc.
Kenneth Richmond, nel 1973, non aveva difficoltà ad annotare che “quando un italiano parla di ‘educazione permanente’, un francese di ‘éducation permanente’ ed un inglese di ‘lifelong learning’ non stanno necessariamente parlando della stessa cosa” ; se questo era ed è un dato di fatto appare allora ingenuo pensare che, adottando in modo generalizzato l’espressione lifelong learning possano scomparire, come per magia, differenze di concezioni, di strategie, di pratiche - in materia di educazione lungo tutto il corso della vita - legate alla storia, alla cultura, alla tradizione educativa dei singoli Paesi . L’adozione di un lessico standard appare, in questo caso, un’operazione tutt’altro che vantaggiosa. A conferma che l’aver preferito il termine apprendimento ad educazione ha, a nostro parere, prodotto un “impoverimento” del concetto di “realizzazione piena di sé” (intesa come attivazione di tutte le funzioni di cui l’uomo dispone) basterà dire, per esemplificare, che non si può pensare l’educazione permanente (in particolare a come essa si è sviluppata quantomeno in Francia e in Italia) senza associarla al processo di animazione socio-culturale; processo che, invece, occupa un ruolo marginale nell’economia del lifelong learning o che, comunque, vi assume un significato diverso. Nel primo caso l’animazione si fa strumento di presa di coscienza, da parte dei cittadini, dei propri diritti; si fa opportunità di emancipazione sociale e di partecipazione alla vita democratica, si fa espressione di una cultura emergente che testimonia il costituirsi di processi di crescita personale e sociale. Nel secondo caso l’obiettivo sembra invece essere quello di affiancare e sostenere l’altro per consentirgli di accedere al sapere, senza interrogarsi esplicitamente sulle cose da apprendere ed in finzione di che cosa, oltre che, prioritariamente, su come motivare le persone all’apprendimento. Mentre, cioè, l’educazione permanente si è posta il problema, attraverso l’animazione (e quindi avanzando progetti, realizzando attività ed iniziative rispondenti ad interessi individuali o a quelli di gruppi), di come avvicinare alla cultura anche singoli, comunità e ceti sociali tradizionalmente tendenti ad autoescludersi da essa perché mancanti dei necessari strumenti intellettuali, si ha l’impressione che le politiche di lifelong learning non siano al momento in grado di esprimere altrettanta capacità di coinvolgere in esperienze di educazione/formazione i cittadini che dispongono di bassi livelli di istruzione o che presentano situazione di illiteracy, tantomeno di tradurle in impegno civile. Potremmo, anzi, dire che esse finiscono con il rafforzare, per quanto involontariamente, una tendenza largamente diffusa: quella secondo cui la formation va à la formation.
Per quanto la schematizzazione or ora accennata pecchi di ingenuità e semplicismo, non c’è dubbio che la nostra preferenza vada ad un sistema educativo/formativo che, pur avendo nell’apprendimento il suo fulcro, non si esaurisce tuttavia in esso. L’“intimità dell’atto di apprendimento”, per citare ancora Bélanger, il decidere cioè di apprendere e il sapersi avvalere dei frutti di tale attività, merita la massima attenzione ed il massimo sostegno ma riteniamo che tutto ciò possa esprimersi al meglio solo in contesti capaci di apprezzare il valore dell’apprendimento, di coglierne la forza generativa, di vederlo come un mezzo utile ad affrontare sia i problemi di carattere sociale del nostro tempo (occupabilità, coesione sociale, esercizio della cittadinanza attiva) sia a promuovere lo sviluppo personale. L’agire educativo non può, in altri termini, prescindere dal collocarsi in una prospettiva olistica in cui gli spetti sociali abbiano modo di saldarsi con quelli culturali, politici, economici, demografici, ambientali e così via. Soprattutto non può non avere come termine di riferimento un’idea dell’uomo, della società, dello sviluppo, del futuro del mondo che si intende costruire, in funzione del quale occorrono certamente apprendimenti (conoscenze, abilità, saperi) ma anche ideali, valori, passioni e, forse, anche sogni. Pensare che l’orizzonte di riferimento delle politiche educative che fanno capo all’idea di “corso della vita” possano limitarsi agli obiettivi di Lisbona fissati nel 2000, per quanto in sé ambiziosi e di non facile attuazione, vorrebbe dire che ci accontentiamo di un programma di basso profilo, decisamente poco stimolante.

Sergio Angori (Università degli Studi di Siena)

Isfol, L’offerta di formazione permanente in Italia. Primo rapporto nazionale, vol. I, Roma, 2003, pp. 36-45; E. Marescotti, Il lessico dell’Educazione degli adulti: una prima rassegna critica, “Ricerche Pedagogiche”, 147, 2003; F. Toriello, L’educazione degli adulti nei Documenti nazionali. Un tentativo di definizione, “Studium Educationis”, 1, 2003, E. Toriello, Per una pedagogia del corso di vita. Riflessioni e orientamenti a partire dall’analisi di alcuni Documenti europei di politica dell’educazione, “I Problemi della Pedagogia”, 1, 2005. Si vedano inoltre: S. Angori, Educazione permanente: un’espressione superata?, “Prospettiva EP”, 3, 2001 e S. Angori, Educazione permanente: quali prospettive?, “Prospettva EP”, 4, 2003. Per un inquadramento del problema cfr. C. Aňonuevo, T. Ohsako, W. Mauch, Revisiting Lifelong Learning for the 21st Century, Unesco – Istituto per l’educazione, Amburgo, 2001.

Eurydice, Apprendre tout au long de la vie: l e contribution des systèmes éducatifs des Étatts membres de l’Union européenne, Bruxelles, 2000.

Per una ricostruzione storica di tale concetto cfr. J.C. Forquin, L’idea di educazione permanente e la sua espressione internazionale a partire dagli anni ’60, in “LLL Focus on Lifeling Liewide Learning”, 2, 2005.

Duccio Demetrio osserva che le dimensioni in cui è declinabile l’educazione in età adulta sono tre, tra loro correlate: quella dell’educazione permanente (dimensione teoretica e speculativa), quella dell’educazione degli adulti (dimensione pragmatico-operativa), quella dell’educazione in età adulta (dimensione personale, della coscientizzazione). La prima è la dimensione che evidenzia, in particolare, come l’educazione abbia la funzione di sollecitare processi di emancipazione e di superamento delle situazioni di esclusione sociale (D. Demetrio, Manuale di educazione degli adulti, Laterza, Bari, 1997, p. 15 e segg.).

P. Bélanger, Nuove visioni su lifelong learning e musei, in M. Sani, a cura di, Musei e lifelong learning. Esperienze educative rivolte agli adulti nei musei europei, Istituto per i Beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, Bologna, 2004.

Ibidem.

Si vedano J. Delors, Nell’educazione un tesoro. Rapporto all’UNESCO della Commissione internazionale per l’educazione per il XXI secolo, tr. it., Armando, Roma, 1997; Conferenza Unificata Stato-Regioni-Autonomie locali, La riorganizzazione e il potenziamento dell’educazione permanente degli adulti, 2 marzo 2000; Profilo educativo, culturale e professionale dello studente a conclusione del secondo ciclo del sistema di istruzione e formazione, allegato al Decreto legislativo 17 ottobre 2005.

Cfr. M. Mencarelli, L’educazione permanente come idea normativa per la trasformazione delle istituzioni per l’educazione degli adulti, in C. Scaglioso, a cura di, I Centri Sociali di Educazione Permanente. Prospettive di sviluppo, Ministero della Pubblica Istruzione, Città di Castello, 1973, p. 34; J. L. Garcia Garrido, L’educazione permanente in prospettiva internazionale, in L. Corradini, a cura di, Pedagogia: ricerca e formazione. Saggi in onore di Mauro Leang, Ed. SEAM, Formello (Roma), 2000, p. 85.

WK. Richmond, L’educazione permanente, Le Monnier, Firenze, 1978, p. 20.

Non è un caso che in Francia si preferisca l’espressione “éducation e formation tout long de la vie” a lifelong learning.





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